Intervista al giornalista e scrittore uruguiano Raúl Zibechi sul modello economico imperante oggi e le resistenze popolari: «Intere comunità sono ostacoli da rimuovere per lasciar spazio a miniere a cielo aperto, monocolture, grandi opere. Ma c’è anche un estrattivismo di tipo urbano, la gentrificazione»
Raúl Zibechi è un giornalista, scrittore e attivista uruguaiano, da anni impegnato nella narrazione dell’evoluzione dei movimenti sociali in America Latina. Lo scorso giugno ha partecipato a vari incontri in giro per l’Italia. A Roma, al Parco delle Energie-Csoa Ex Snia, era insieme a una quindicina di comitati che si oppongono alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali, dal Tap al Tav passando per le battaglie contro gli inceneritori nel Centro Italia e per quelle di chi difende un modo diverso di produrre e distribuire il cibo. Un’occasione per approfondire con lui una serie di temi.
Nei tuoi articoli e nei tuoi libri illustri e analizzi il concetto di estrattivismo, ancora poco conosciuto da noi. Puoi spiegarci di che cosa si tratta?
L’estrattivismo è una forma di accumulazione fatta dal capitale finanziario, che domina attualmente nel pianeta, attraverso l’appropriazione della natura e dei beni comuni per convertirli in beni di consumo. È l’accumulazione per spossessamento, per «furto». Una differenza fondamentale tra l’estrattivismo e il sistema industriale è che per quest’ultimo gli esseri umani erano una risorsa da sfruttare, servivano a raggiungere il plusvalore. Nell’estrattivismo le persone, ma direi intere popolazioni, sono ostacoli che devono essere rimossi per lasciar spazio, per esempio, alle miniere a cielo aperto, alle monocolture, come la soia, o alle grandi opere infrastrutturali, come quelle per trasportare gli idrocarburi. Ma c’è anche un estrattivismo urbano, che si manifesta tramite la gentrificazione, che sta avvenendo in tutto il mondo. Per questo non ci troviamo di fronte solo a un modello economico, io parlo di vera e propria società estrattiva, che implica una militarizzazione del territorio che crea le basi per uno Stato di polizia. Ormai dobbiamo parlare di «elezioni senza democrazia», perché non si può scegliere che tipo di società vogliamo. Altro elemento nuovo e molto pericoloso è l’alleanza tra capitale finanziario, mafia e forze dello Stato.
Come si declina l’opposizione a questo modello in America Latina?
Partiamo dal presupposto che il soggetto che resiste sta fuori dalla produzione estrattiva, è una vittima che si trova nella zona del «non essere», dove non ha accesso ai servizi fondamentali e pressoché a nulla. Per questo sono nate forme di resistenza territoriale e collettiva, come lo zapatismo, la polizia comunitaria di Guerrero e la guardia indigena Nasa. Oltre a resistere però bisogna anche costruire un «mondo altro» per poter sopravvivere, come sta accadendo in America Latina.
Come si sono posti i governi di sinistra instauratisi negli ultimi lustri nella regione nei confronti dell’estrattivismo?
Coloro che resistono all’estrattivismo hanno constatato come i governi progressisti siano stati ogni volta più amici dell’estrattivismo, addirittura ampliando la sua frontiera. Hanno portato più miniere, più piantagioni di soia e più gentrificazione. Non hanno migliorato le condizioni generali dei settori popolari, hanno garantito loro solo alcuni benefici, ma non diritti.
Qual è stato l’atteggiamento delle fasce popolari nei confronti di questi governi?
In un primo momento li hanno appoggiati con forza, poi il sostegno si è indebolito, soprattutto tra i giovani. Il culmine della protesta si è avuto nel giugno 2013 in Brasile: 20 milioni di persone sono scese in piazza in oltre 300 città.
Alle elezioni presidenziali messicane del primo luglio ci sarebbe potuta essere una candidata indigena, Marichuy, ma non ha partecipato perché non ha raggiunto il numero di firme necessarie. Come giudichi questa mossa del movimento zapatista?
I zapatisti lavorano in una doppia direzione: rafforzare le comunità presenti sul territorio e rompere il loro isolamento, così da legarsi ad altri settori sociali. Un compito difficile, perché le zone zapatiste sono sotto assedio militare. Inoltre la narrazione da parte dei media produce isolamento, tanto che alcuni ignorano l’esistenza stessa dello zapatismo. La campagna di Marichuy, quindi, ha avuto l’obiettivo di creare una rete, di formare delle relazioni con i settori popolari e raccontare quello che lo zapatismo sta facendo, mandando un forte messaggio per facilitare l’auto-organizzazione del popolo. Questo è il vero obiettivo della campagna, non ha nulla a che vedere con le elezioni.
Ci spieghi quale fase sta attraversando ora lo zapatismo?
È un processo molto consolidato, che può contare su molte comunità, 34 municipi autonomi e cinque giunte del buon governo. Dove è presente ha una produzione e una distribuzione propria, scuole e ospedali, un suo sistema di giustizia e un autogoverno a rotazione che non comporta forme di burocrazia. C’è una crescente autonomia, come mi sono accorto frequentando l’Escuelita, la settimana in cui le comunità zapatiste hanno condiviso con altri le loro esperienze.
Quanto sono cambiate le dinamiche politiche in America Latina dopo l’avvento di Trump?
Ha chiaramente rafforzato la destra, non solo politica, ma anche settori più conservatori della società, come per esempio la chiesa evangelica e pentecostale o i gruppi paramilitari, che stanno attaccando in maniera continua le iniziative dei settori popolari. Il tutto in un mondo che va sempre più a destra, come vi state accorgendo anche voi in Europa.
Che idea ti sei fatto della lotta all’estrattivismo in Italia?
È molto presente e visibile nelle città, dove la gentrificazione è ovunque, proliferano centri commerciali e spariscono gli spazi pubblici. Poi abbiamo le grandi opere, come Tav, Tap, le mega-autostrade, lo sfruttamento degli idrocarburi, come in Basilicata. Purtroppo l’offensiva dell’estrattivismo è molto forte, con attacchi diretti alle comunità e ai migranti.
Quali sono i punti di forza e quelli di debolezza dei movimenti italiani?
Dai tempi della centralità del movimento operaio ci sono stati dei cambiamenti molto rilevanti. Dopo il periodo in cui sono nati i centri sociali, ora si assiste a una transizione verso la territorializzazione della lotta, come nei casi della Val di Susa, di Mondeggi o di Genuino Clandestino. È un’alleanza rurale-urbana che non solo resiste, ma crea reti di distribuzione, di produzione. I territori sono i laboratori della nuova società.
Marichuy insieme alle donne indigene e zapatisti e Oventic, in Chiapas
Luca Manes
PUBBLICATO 18.8.2018