L’evoluzione dentro di noi: l’autogestione della Salute

Tratto dall’intervista a Stefano Riccesi, filosofo e naturopata, durante la rubrica MINIMA RURALIA, a Radio Contado (trasmissione di Radio Wombat)

M. Dove si è perso il contatto di ciascuno di noi con la salute? Quando abbiamo iniziato, e perché, a delegare la nostra salute, perdendo il contatto con l’individualità?

S. Nel corso della storia si è estremizzato un rapporto tra uomo e natura, che prima è stato di scissione e poi di dominazione, con un culmine nella rivoluzione scientifica e industriale. Questo si deve alle caratteristiche stesse del pensiero e del linguaggio. Di per sé il pensiero e il linguaggio, tanto più sono qualcosa che assume una vita autonoma, come una sorta di entità separata, oserei dire di demone, tanto più sviluppano una tendenza a strumentalizzare tutto ciò che vive, e quindi a perseguire sempre delle finalità, e i mezzi per ottenerle. C’è un processo che la ragione occidentale ha compiuto, dall’andare da un rispetto, da un’armonia, da una sintesi uomo-vita a una nostalgia, a una distanza, che è diventata controllo. Ed è proprio questo che la scienza ha mostrato di essere: una serie di strumenti volti a conoscere le cose nella misura in cui è interessante riconfigurarle tecnologicamente, manipolarle e poi strumentalizzarle.

M. Da qui il fatto che l’umano abbia coniato scienze per ogni ambito della vita…. Abbiamo risolto un sacco di problemi ma aprendo una marea di contraddizioni.

S. Sì, nel senso che già di per sé dovremmo chiederci se i problemi che risolviamo prima ci fossero o se li creiamo nel momento stesso in cui inventiamo le soluzioni. Se ci poniamo come monadi isolate in un universo ignoto che può aggredirci, sotto forma di batteri, virus, di altre popolazioni o “influenze”, automaticamente instauriamo una psicologia bellica che di fatto richiede uno strumento bellico per essere risolta. Quindi i problemi nascono insieme alle risposte e queste con i problemi.

In un contesto umano in cui la vita non è un fattore aggressivo ma una danza cosmica, nel senso originale di armonica bellezza, un problema del genere non si pone. Il punto chiave è una sofferenza nel paradigma, nella concezione di sé, dove qualcuno subisce o contrattacca rispetto a forze esterne o presunte tali. Questo è ben lungi dall’esser teoria, è quello che ciascuno di noi è portato a sentire nel corpo.

M. Da qui si potrebbero già aprire decine di tematiche, come se davanti a una rotonda ci fossero proposte decine di uscite dove il punto non è trovare quella esatta ma tornare ad essere protagonisti nella scelta. E’ un percorso che è figlio di tutto uno scientismo otto-novecentesco che ci riporta a tornare ad essere ingenui, ovvero “non generati”. E’ possibile iniziare questo percorso dentro di sé adoperando il dubbio come metodo?

S. Sì, è efficace e indispensabile. Da un punto di vita iniziatico, uno dei fattori chiave è quello di maturare una propria visione. Una sfida che è individuale: nel senso che ognuno ha da accettarla e che questo non è eludibile. Ciò avviene nel dialogo, non in modo autistico o stando soli in una stanza. Devo ascoltare, entrare in crisi. Per questo è interessante andare a vedere la figura antica di un essere umano che era allo stesso tempo medico, sciamano, sacerdote, mago e filosofo. Poiché essere filosofo è proprio questo: sapere che c’è un dubbio nell’esistere, cercare dentro la vertigine di questa domanda e mettersi in discussione nella ricerca di un contatto diretto con l’essere. Da questo processo estraggo una mia immagine, una mia mitologia, grazie ai quali do un senso alle cose.

La separazione tra pensiero critico e atto terapeutico, spirituale, creativo, è avvenuta con lo stesso processo descritto prima, ma originariamente questi sono movimenti dello stesso anelito alla libertà e all’autenticità che l’essere umano inevitabilmente porta in sé.

M. Maturare una propria visione individuale diventa a un certo punto una necessità per molti e molte, dove è fondamentale la presenza dell’Altro. Questo Io che dialoga col mondo non è solamente una scienza pesante ma è anche qualcosa di più intimo. Aprendo il tema della salute, cos’è la salute oggi?

S. Innanzitutto è un atto relazionale, che scaturisce dal dialogo e dall’incontro. In due accezioni collegate: il dialogo e l’incontro delle diverse parti di sé, dei diversi spiriti che vivono nella psiche individuale e allo stesso tempo dei diversi spiriti, dei vari soffi che abitano la psiche collettiva. Entrambe sono dei politeismi, degli ambienti composti. In sintesi dentro di noi ci sono un sacco di personaggi conosciuti e sconosciuti. Ciò è vero anche a livello del corpo, poiché il temperamento del mio fegato, il carattere del mio cuore, il fuoco delle mie viscere, il desiderio dei miei reni, sono cose che vogliono parlare.

La salute è porsi in dialogo con queste forze nascoste che noi siamo, quindi l’alterità abita il corpo ma abita anche ciò che è fuori da corpo, e dobbiamo rompere questa distinzione e far rifluire l’energia, il respiro, l’attenzione oltre tutte le membrane, per mettere in comunicazione tutti gli spiriti che vogliono essere visti e comunicare gli uni con gli altri. Scendendo nella materia questo significa rompere quelle contrazioni, purificare quei coaguli, che bloccano lo scorrimento dell’energia vitale.

La salute è vitalità, un dinamismo che è libero scorrimento intelligente, autonomo e sensato del soffio vitale, dettato dall’intelligenza del corpo e dalla memoria delle cellule, depositi ancestrali di saggezza. È riconnessione che consente un libero fluire. Quindi nutrimento, ascolto, attivazione di forze interiori, in corpo, anima e spirito, che non è un somministrare sostanze ne’ un ricostruire corpi, ma è favorire qualcosa che è già perfetto di per sé. Favorirne la fioritura.

M. C’è davvero qualcosa di ancestrale, profondo, vero, archetipico. Quali corde devo andare a toccare per affinare questa sensibilità verso se stessi?

S. Accolgo con piacere il fatto che sia arrivato il termine “archetipico”, perché ciò di cui parliamo sono proprio le forme universali dell’essere. Qualcosa di cui Jung ci ha parlato nel ‘900 ma che in realtà è un deposito molto più antico. Tutte le filosofie antiche sono filosofie archetipiche e descrivono la vita attraverso simboli. Questa è già una chiave, nel senso che per riuscire a riabilitare questa sensibilità, è necessario tornare a pensare in modo analogico, non solo logico, quindi porre le diverse realtà della vita in relazione tra loro attraverso immagini simboliche. Il simbolo è qualcosa che porta il conosciuto verso lo sconosciuto, ponendoci in relazione con qualcosa che apparentemente non sembra in relazione.

Quello che bisogna fare è arte e poesia, prima di tutto. Quindi è cominciare a fare poesia, al di là del talento, come educazione al simbolo, essendo consapevoli che le immagini e le visioni che perseguiamo, facendo appunto arte e poesia, sono un tentativo dell’inconscio di descrivere se stesso, un modo per leggere l’invisibile.

Le popolazioni ancestrali, alle quali possiamo fare riferimento per ricostruire una visione cosmica, sono popolazioni che infatti hanno come testo scientifico il poema mitologico. Questo non è perché sono primitive, ma perché sono connesse al fatto che ciò che è visibile veicola qualcosa che è invisibile. Perché l’invisibile è la legge segreta del visibile, ne è il codice, il perché, la causa.

L’unico modo, dicevamo, è avere una visione poetica della realtà, come di fatto avevano sia le tradizioni orientali che occidentali: basti pensare che Platone all’alba della nascita del pensiero cosiddetto moderno ha bisogno di accostare alla dimensione logica della filosofia quella mitologica. Questa visione del mito non è un valore legato all’espressione soggettiva, ma è una forma di lettura della realtà. Bisogna rieducarsi a questo. Non nel tempo libero, come distrazione, ma come qualcosa che educa e affina la percezione sottile delle cose.

M. Una volta che ho intrapreso questo percorso, che ho coscienza della realtà del mio corpo, mi trovo però ad affrontare il qui e ora in un contesto in cui da un lato tendo verso il profondo e dall’altro sono costretto ad affrontare la precarietà della vita, rincorrendo la costante organizzazione. Ciò a mio parere sembra andare in senso contrario alla fluidità di cui si parlava, laddove devo ingabbiare la realtà in una visione predeterminata. Come risolvere questa frizione?

S. Intanto consideriamo un aspetto che ci alleggerisce: l’organismo inteso nella sua complessità tende di per sé alla salute. Fidandoci del fatto che il corpo stesso ci dà un esempio di libertà e di organizzazione contemporaneamente. Il corpo è libero, è in salute, grazie al fatto che sa e si lascia auto organizzarsi. Quindi questa distinzione a un certo livello non c’è. C’è una circostanza in cui sono, momento per momento, e in quella circostanza esiste quel fluido, nutriente e luminoso, di cui ho bisogno.

In sostanza c’è la possibilità di avere un’organizzazione fluida che non è controllo ne’ sacrificio.

Il termine nutrimento mi aiuta a risponderti. Di cosa ci nutriamo noi? Di cibo. Ma anche di cibo emozionale, intellettuale, spirituale. Quando è ben scelto il nutrimento, e questo lo riconosci dall’effetto che ti dà, allora  hai una risposta molto migliore agli stress del quotidiano. E’ comunque importate continuare a stare un po’ male in relazione a un vivere patologico, perché quel residuo di sofferenza ci porta a voler cambiare le cose.

Aggiungo che nell’Alchimia esiste la visione secondo quale c’è un’opera della natura e un opera umana che è una sorta di completamento. L’operare umano, l’arte, completa la natura nel senso che funziona ed esprime se stessa quando, conoscendo le leggi della vita, continua ad agire secondo esse portando la vita ad un’ulteriore esaltazione. Significa vedere la componente di vocazione, di desiderio irrisolto, che c’è nella sofferenza del corpo e della psiche, e portarla avanti. Ovvero significa restare vigili sul pensiero, concentrarsi su quale dono, stile e talento è quello con cui posso contribuire. Questo è un fattore che influenza la vita del corpo. Quando sono in questo sto nel desiderio che ha la vita per me, per cui in qualche modo, per quanto difficili siano le circostanze, sento di essere sulla strada giusta, e ciò mi aiuta a mantenere la centralità e la”solarità”.

M. Il passaggio dal sé individuale al sé collettivo, al noi, è forse la parte più spinosa, perché bisogna incontrarsi, conoscersi, riconoscersi. Quando si trasforma tutto questo enorme complesso di approcci alla salute, in un atto politico e collettivo?

S. Secondo me non c’è un momento in cui si trasforma, lo è dall’inizio, poiché ogni nostro gesto è intrinsecamente politico. Cos’è politica? In senso antico politica è prima di tutto immaginazione, governo delle pulsioni, dei desideri, delle energie umane attraverso dei precisi codici che orientano le pulsioni e danno al nostro desiderio di vita delle direttrici, dei significati dentro cui inserirsi. La politica è prima di tutto organizzazione della concezione della realtà. La politica è un atto magico, nel senso dei maghi antichi o rinascimentali: azione sull’immaginazione, la quale crea la realtà in cui vivo. La politica è l’arte dell’orientamento dei desideri in un senso piuttosto che in un altro.

Per risvegliare una visione in cui noi siamo scintille della stessa luce, solarità che si rifrange, è bene fare politica perché è andare a riparare delle ferite che il discorso del potere ci va a creare per il fatto di instradare il nostro desiderio in logiche comportamentali, in significati, in oggetti di desiderio, che fondamentalmente ci avvelenano, poiché chi vuole manipolarci ha interesse solo a economizzare le nostre pulsioni e i nostri desideri.

Quindi facciamo politica nel momento stesso in cui cominciamo a chiederci “ma come stanno veramente le cose?” e “siamo veramente sicuri che quello che mi stanno raccontando  corrisponda alla mia verità profonda?”.

Qui si apre uno spiraglio in cui quando comunichiamo con gli altri si manifesta qualcosa di archetipico: non dobbiamo inventare nulla, ma entriamo in un campo di risonanza grazie al quale la sensibilità segreta della vita viene fuori, permettendoci di ri-conoscerla: ecco da dove veniamo, ecco qual è il desiderio eterno che noi portiamo, ecco in che senso siamo parte del tutto!

C’è un’energia infinita che è il nostro desiderio, ma dipende quale rappresentazione insegue.

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