Chiacchierata con Stefano boni, professore e antropologo dell’Università di Modena e Reggio Emilia
Tratto dalla rubrica Minima Ruralia della trasmissione Radio Contado di Wombat Radio.
Mulo: Città e campagna. Tra queste c’è sempre stato un rapporto di vicinanza-lontananza..
Stefano: Si’, c’è sempre stato un rapporto simbiotico tra città e campagna, che però si è invertito in questi ultimi 100 anni. La campagna è stata la cultura umana per buona parte della storia, e solamente negli ultimi 100 anni ci siamo abituati a considerarci come esseri umani che vivono in contesti urbani. Per dare dei numeri riguardanti il nostro Paese: dal 1300 al 1800 tra il 90 e il 65% della popolazione viveva in centri sotto i 5mila abitanti, e solamente dal 2 al 14% in centri sopra i 15mila abitanti.
M: Parlaci un po’ di questa cultura di campagna.
S: La cultura umana era una cultura di campagna, anche se la storia tende a dare un peso maggiore alla cultura cittadina. Quando noi riguardiamo il passato in termini di Che cos’è la civiltà umana, noi cancelliamo la vita di campagna e ci soffermiamo sulle città – gli intellettuali di città, le opere artistiche, le guerre dei potenti pensate nelle città – quindi è buffo perché siamo stati una specie di campagna ma ci rappresentiamo oggi come esseri umani che hanno sempre vissuto in città. Invece la nostra è una storia di simbiosi con l’ambiente naturale.
M: E’ facile ricollegarsi al mondo classico. Si può dire che la fine del nomadismo è stato l’inizio di questo percorso alla rovescia?
S: La storia ha mille sfaccettature, ma se lo guardi su un processo millenario quello che vedi è un processo di progressiva espansione, anche se non lineare. Per esempio nell’età classica c’era più gente in città rispetto al Medioevo. Ma il cambio grosso avviene con la rivoluzione industriale. Quello che fa bene in un’ottica antropologica è rendersi conto della particolarità del nostro posizionamento, della nostra cultura rispetto alla storia umana, perché questo dà un senso di come l’umanità ha vissuto nelle sue diverse forme. Le culture rurali erano molteplici, localizzate, ognuna con i suoi adattamenti specifici all’ambiente in cui vivevano, e ognuna con i suoi valori e le sue competenze e pratiche. Tutto questo si interrompe a fine ottocento: tra il 1861 e il 1961 la popolazione urbana sale dal 17 al 57% e arriva al 70% nel 2000; nel 2005 la popolazione rurale è scesa al 32%, mentre attualmente siamo intorno al 25%, sempre parlando dell’Italia.
M: Ubanizzazione vuole anche dire tecnologizzazione: da quando abbiamo sviluppato la capacità di inventare macchine tante braccia non erano più così utili, e con l’uso dei computer abbiamo perso il contatto, l’impressione, con il fare manuale. Ma al contempo la città sviluppa delle competenze…
S: Sicuramente la tecnologia che si è innestata con le rivoluzioni industriali ha prodotto dei benefici, tant’è che c’è stato un drenaggio non forzato dalle campagne alle città. Il passaggio dalla campagna era concepito come una passaggio di benessere, come una vita più comoda. Questa cosa va semplicemente accettata. Quello che però è stato poco messo a fuoco sono le conseguenze di questo passaggio, nel senso che sia a livello individuale, grazie all’appetibilità dei servizi della città, sia a livello di massa nel novecento, con gli spostamenti dalle campagne, sono arrivati una serie di benefici. Naturalmente questo si accompagna a un altro fenomeno: la tecnologizzazione del mondo rurale, dell’agricoltura. Da un lato in città è cercata manodopera, dall’altra il mondo rurale comincia ad avere una sovrabbondanza di manodopera perché se l’agricoltura artigianale ha tecnologie contenute e richiede manodopera umana, nel momento in cui cominci a meccanizzare tutto questa manodopera non serve più. Il podere toscano aveva un’estensione di qualche ettaro ed era gestito da una famiglia di 10-20 persone, ma da quando cominciano ad essere aggruppati in diversi poderi con 2 o 3 contadini che lavorano solo coltivando con le macchine e seminando in maniera meccanica, si assiste ad una produzione che eccede quelli della vecchia agricoltura contadina.
M: Certo, prima c’erano i poderi medi toscani di una famiglia di 2,3 fratelli con mogli, con 15 persone, mentre oggi che abbiamo 2 trattori rimangono 13 persone che possono andare in città, a studiare. Tutto questo giochino potrebbe funzionare se producessimo cibo buono, ovvero se non tenessimo conto della componente ecologica. L’ecologia non era un tema presente perché non era necessario. Oggi invece non si può non fare i conti con questa tematica, e nel rapporto campagna-città si rischia di scadere in un approccio più buonista: la campagna anch’essa deve confrontarsi con questa tematica dell’ecologia perché parlando di trattori, fertilizzanti, forzature, stai modificando in maniera sostanziale il tuo mondo.
S: Sì, e subisci l’instabilità delle stagioni di questi ultimi anni. Adesso si ripercuote sulla campagna l’inquinamento prodotto dal sistema industriale produttivo contemporaneo. L’ecologia è sicuramente un tema, basta pensare che fino all’800 non c’erano rifiuti, nel mondo contadino l’idea di rifiuti di lunga durata non esisteva. Le materie organiche deperiscono e diventano una risorsa. Ma non c’è solamente il tema ecologico per riflettere sulle problematicità: ragionare sulle problematicità non vuol dire rifiutare tutto ciò che è stato fatto dalle rivoluzioni industriali, ma rendersi conti del perché è stato vissuto per decenni solamente soffermandosi sulle cose positive. Andiamo a ragionare sulle cose meno positive, guardando la delega dall’umano alla macchina. Nel ciclo produttivo contadino-artigianale, con la delega alla macchina si perde il ruolo centrale dell’operatore tecnico-artigianale. Per mandare avanti l’economia contadina c’era bisogno di persone che sapessero fare con le loro mani, capaci di attivare processi tecnici in cui la loro destrezza riusciva a produrre un risultato. Con le macchine non sei più tu al centro del processo produttivo ma è una macchina prodotta dalle grandi aziende, e questo vuol dire spostare il protagonismo dalla società, in cui ognuno aveva competenze da mettere in campo, alle macchine. Adesso sei un controllore di una macchina. L’unica competenza che rimane è quella che riguarda la lettura di un manuale di istruzioni.
M: E cambia l’uomo…
S: Sì, cambia. In campagna si perdono competenze, perché quelle collegate al saper fare, che si acquisivano in maniera paziente, stando vicini a chi sapeva farle, osservando e incorporandole nel proprio corpo, attraverso vista, olfatto, destrezza manuale, sono tutte delegate a un manuale di istruzioni e a un bottone. Ciò è pericoloso, perché se la comunità contadina era autosufficiente fino a 100 anni fa, adesso siamo anche in un contesto rurale sempre più dipendenti da processi tecnici e dagli interessi capitalistici. I benefici di quello che fai non vanno più nel tessuto sociale, ma vengono drenati verso l’alto dalle grandi aziende. Non riusciamo più a vivere con le nostre forze e competenze. Se non riusciamo a garantirci l’autosufficienza vuol dire accettare di fare il dipendente, il subordinato, di chi produce la tecnologia che ti permette di produrre.
M: Ma se io nascessi in un contesto che è già compromesso, come faccio? La cosa che reputo grave è che non scatta più nemmeno quella curiosità o laddove potrebbe scattare è difficile che un singolo individuo entri in contatto con la campagna. Anche qui, è difficile che una persona entri in contatto con tutto ciò. Ci abituiamo quindi a non fare fatica? Parliamo di un contesto già compromesso?
S: Da molti punti di vista il contesto è già compromesso, Quando la gallina diventa un’attrattiva per i bambini che non sanno come si fanno le uova, mancando le basi per costruire un’autosussistenza rurale. Quando la campagna è quella del mulino bianco, quando le competenze di base come accendere un fuoco sono meno diffuse, quando i processi fondamentali nella crescita delle piante non sono note, chiaramente non solo stai creando una cultura non in grado di autosussistenza, ma le stai negando le basi per crearsela. Dall’altro lato ci sono dinamiche opposte, che secondo me nascono dal godimento e dalla bellezza di vedere il proprio sforzo lavorativo produrre un bene. Invece pensare che tu puoi vedere crescere le piante e vedere che c’è una proporzione diretta tra ciò che fai e cosa viene fuori è una specie di liberazione.
M: Di recente stiamo reimparando una serie di cose. Mi trovi parzialmente d’accordo sul fatto di avere dei maestri, perché è più che mai necessario riscrivere il concetto stesso di contadinità, e questo non perché siamo migliori dei nostri padri e nonni (perché il mio ettaro rende 10 volte tanto, ecc), ma semplicemente perché va ricontestualizzato questo stesso termine. Quella che è la nuova generazione di contadini, con delle lauree per esempio, è che non ci sono maestri, perché i maestri che ci sono ancora oggi vanno cercati con la lanternina, dal momento che l’alternativa è l’agricoltore industriale o l’accademico, in cui i ritmi sono comunque legati a una macchina. Bisogna rimodellare i concetti di comunità e di lavoro.
S: Si’, stiamo parlando di una trasformazione culturale, che ha tempi molto lenti. Darei un po’ più di rispetto alla contadinità degli anziani. Non sarà lo stesso mondo contadino di 100 anni fa ma qualcosa di buono viene fuori anche dai nonni. Il mondo contadino non è una professione, è una cultura. Nell’ottica attuale invece siamo abituati a pensare alle persone come lavoratori. Difficilmente si scinde il lavoro con gli altri ambiti dell’esistenza, e i legami umani sono indispensabili per farlo sopravvivere. Mentre nell’agricoltura riesci a fare da solo, un mondo contadino sostenibile e in grado di entrare in relazione con l’ambiente, richiede comunità. Le reti di contatti e di scambio locali con la città permettono a chi vive in campagna di poter sopravvivere.
M: Qualche riferimento?
S: Consiglio l’albero degli zoccoli di Olmi
Comunità di Resistenza Contadina Jerome Laronze, Genuino Clandestino Firenze