Siamo persone che lavorano la terra e la amano. Raccogliamo i suoi prodotti, li distribuiamo, senza sfruttare i corpi di chi la lavora. Siamo calabresi, donne e uomini abituati a camminare tra i boschi per ascoltare la voce degli alberi, il crepitio delle pietre, il mormorio dell’acqua. Siamo contadini e contadine, escursionisti, ambientalisti, abitanti di questi antichi paesaggi. Nelle ultime settimane, abbiamo visto piangere l’Aspromonte, dilaniato dalle fiamme appiccate da esseri umani che definiremmo “bestie” se ciò non risultasse offensivo verso le altre creature del regno animale. Soprattutto, ci siamo commossi vedendo gli anziani piangere dinanzi a questo disastro. Lo sgomento s’è tramutato in rabbia ed indignazione, dinanzi alle bare delle cinque vittime di un incendio talmente esteso da lambire anche le nostre case.
L’Aspromonte oggi piange, e tutti noi con lui, ma quanti sono davvero in grado di raccogliere le sue lacrime? Di certo non la classe politica, responsabile sia di questo che di altri scempi. Non ci interessa il rimpallo delle accuse. In fondo, i soggetti istituzionali di oggi sono gli stessi che da un secolo e mezzo trattano l’Aspromonte come un luogo oscuro e infestato da banditi. Cosa potremmo aspettarci dai discendenti politici del ceto dominante che dai Borbone ai recenti governi neoliberisti, passando per i Sabaudi, il fascismo e la Democrazia Cristiana, ha negato il riconoscimento delle storiche rivendicazioni che da sempre i movimenti meridionali avanzano? Manganelli, manette e pallottole sono serviti a fermare la redistribuzione delle terre, il taglio delle tasse sui beni di prima necessità, il ritorno agli usi civici. Al contrario degli antichi e moderni baroni, per noialtri l’Aspromonte è anzitutto un luogo di riproduzione sociale, libertà, bellezza, armonia con la natura. Grazie anche alle guide che in questi anni lo hanno fatto riscoprire, da anni ci accompagniamo i nostri amici e compagni per gustarne i tratti sublimi e lasciare che esso si racconti da solo. Siamo convinti che lo sfruttamento intensivo dell’agroindustria, l’abbandono delle nostre montagne, la chiusura di scuole, uffici postali e ospedali, la svendita di risorse e di interi territori alle multinazionali, non siano eventi casuali, bensì frutto di una precisa volontà politica. Lo spopolamento di tanti piccoli centri è al tempo stesso conseguenza di questa volontà depauperante e causa dello stato di abbandono che provoca disastri come l’incendio dello scorso agosto. Le fiamme hanno distrutto 7mila ettari di boschi, devastato una biodiversità ormai irrecuperabile, incenerito alberi millenari o plurisecolari. Inutile invocare l’intervento dei Vigili del fuoco, ai quali comunque va tutta la gratitudine delle popolazioni locali. Il compito principale dei pompieri è il salvataggio delle vite umane. Spetterebbe invece al Corpo forestale dello Stato la responsabilità di prevenire e spegnere gli incendi. Peccato che con l’accorpamento ai carabinieri le caserme della Forestale siano state chiuse e, per effetto dei tagli e delle cosiddette “riforme” degli ultimi anni, nessuno risponda più alle numerose segnalazioni d’allarme sul rischio di incendi.
L’incuria, il dissesto, la mancata messa in sicurezza del territorio, le politiche neoliberiste, sono le vere cause di tanta distruzione, non dissimili dagli interessi politico-criminali che hanno trasformato intere aree della Calabria in zone depresse, inquinate, imbottite di veleni industriali spesso provenienti da altre zone del Paese.
Ecco perché oggi ci poniamo delle domande. Anzitutto, il rimboschimento servirà a qualcosa o solo ad alimentare gli interessi dei soliti gruppi privati e delle loro clientele politiche? Le istituzioni la smetteranno di sperperare risorse pubbliche con la scusa di riportare il verde? Dato che gran parte degli alberi che avevano 700, 800 anni, germogliarono e crebbero in un clima diverso, avrebbe ancora senso ripiantare oggi quelle specie vegetali? Quali speranze avranno di attecchire, all’esito di un cambiamento climatico che precede di pochi anni la prevista desertificazione delle nostre latitudini?
Chiediamo dunque che non si segua la logica del profitto, come purtroppo è già accaduto in altre aree della Calabria. Ci opponiamo al meccanismo del business che da sempre alimenta e dirotta gli stanziamenti di risorse pubbliche.
Per tutte queste ragioni, il 18 settembre, nella giornata in cui si svolgerà la marcia per la Terra da Firenze a Mondeggi, mentre i ministri sciacalli del G20 si riuniranno nei loro palazzoni per tornare ad imporre il loro modello capitalista di agricoltura, anche noi, in Calabria, sull’Aspromonte, daremo vita ad una marcia di lotta per l’autodeterminazione alimentare.
Invitiamo donne e uomini, collettivi, comitati e associazioni di altri territori ad unirsi a noi. In grecanico, “aspro” significa bianco. Al candido colore di una montagna che ci ha sempre accolto, uniremo il rosso della nostra indignazione!